Dante Alighieri
Convivio
(trattato IV, capp. VI-X)
TRATTATO IV
Capitolo VI
Di sopra, nel
terzo capitolo di questo trattato, promesso fue di ragionare de l'altezza de la imperiale
autoritade e de la filosofica; e però, ragionato de la imperiale, procedere oltre si
conviene la mia digressione, a vedere di quella del Filosofo, secondo la promessione
fatta. E qui è prima da vedere che questo vocabulo vuole dire, però che qui è maggiore
mestiere di saperlo che sopra lo ragionamento de la imperiale, la quale per la sua
maiestade non pare esser dubitata. E` dunque da sapere che "autoritade" non è
altro che "atto d'autore". Questo vocabulo, cioè "autore", sanza
quella terza lettera C, può discendere da due principii: l'uno si è d'uno verbo molto
lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto quanto "legare parole",
cioè "auieo". E chi ben guarda lui, ne la sua prima voce apertamente vedrà che
elli stesso lo dimostra, che solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque
vocali, che sono anima e legame d'ogni parole, e composto d'esse per modo volubile, a
figurare imagine di legame. Ché, cominciando da l'A, ne l'U quindi si rivolve, e viene
diritto per I ne l'E, quindi si rivolve e torna ne l'O; sì che veramente imagina questa
figura: A, E, I, O, U, la quale è figura di legame. E in quanto "autore" viene
e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che con l'arte musaica le loro
parole hanno legate: e di questa significazione al presente non s'intende. L'altro
principio, onde "autore" discende, sì come testimonia Uguiccione nel principio
de le sue Derivazioni, è uno vocabulo greco che dice "autentin", che tanto vale
in latino quanto "degno di fede e d'obedienza". E così "autore",
quinci derivato, si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita. E da questo
viene questo vocabulo del quale al presente si tratta, cioè "autoritade"; per
che si può vedere che "autoritade" vale tanto quanto "atto degno di fede e
d'obedienza". [Onde, quand'io provi che Aristotile è dignissimo di fede e
d'obedienza,] manifesto è che le sue parole sono somma e altissima autoritade.
Che Aristotile sia dignissimo di fede e
d'obedienza così provare si può. Intra operarii e artefici di diverse arti e operazioni,
ordinate a una operazione od arte finale, l'artefice o vero operatore di quella
massimamente dee essere da tutti obedito e creduto, sì come colui che solo considera
l'ultimo fine di tutti li altri fini. Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, lo
frenaio, lo sellaio, lo scudaio, e tutti quelli mestieri che a l'arte di cavalleria sono
ordinati. E però che tutte l'umane operazioni domandano uno fine, cioè quello de l'umana
vita al quale l'uomo è ordinato in quanto elli è uomo, lo maestro e l'artefice che
quello ne dimostra e considera, massimamente obedire e credere si dee. Questi è
Aristotile: dunque esso è dignissimo di fede e d'obedienza. E a vedere come Aristotile è
maestro e duca de la ragione umana, in quanto intende a la sua finale operazione, si
conviene sapere che questo nostro fine, che ciascuno disia naturalmente, antichissimamente
fu per li savi cercato. E però che li disideratori di quello sono in tanto numero e li
appetiti sono quasi tutti singularmente diversi, avvegna che universalmente siano pur
[uno], ma[lag]evole fu molto a scernere quello dove dirittamente ogni umano appetito si
riposasse. Furono dunque filosofi molto antichi, de li quali primo e prencipe fu Zenone,
che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade;
cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla
mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. E
diffiniro così questo onesto: "quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sé
di ragione è da laudare". E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di
loro quello glorioso Catone di cui non fui di sopra oso di parlare. Altri filosofi furono,
che videro e credettero altro che costoro; e di questi fu primo e prencipe uno filosofo
che fu chiamato Epicuro; ché, veggendo che ciascuno animale, tosto che nato è, quasi da
natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse
questo nostro fine essere voluptade (non dico "voluntade", ma scrivola per P),
cioè diletto sanza dolore. E però [che] tra 'l diletto e lo dolore non ponea mezzo
alcuno, dicea che "voluptade" non era altro che "non dolore", sì come
pare Tullio recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che da Epicuro sono Epicurei
nominati, fu Torquato, nobile romano, disceso del sangue del glorioso Torquato del quale
feci menzione di sopra. Altri furono, e cominciamento ebbero da Socrate e poi dal suo
successore Platone, che, agguardando più sottilmente, e veggendo che ne le nostre
operazioni si potea peccare e peccavasi nel troppo e nel poco, dissero che la nostra
operazione sanza soperchio e sanza difetto, misurata col mezzo per nostra elezione preso,
ch'è virtù, era quel fine di che al presente si ragiona; e chiamaronlo "operazione
con virtù". E questi furono Academici chiamati, sì come fue Platone e Speusippo suo
nepote: chiamati per luogo così dove Plato studiava, cioè Academia; né da Socrate
presero vocabulo, però che ne la sua filosofia nulla fu affermato. Veramente Aristotile,
che Stagirite ebbe sopranome, e Zenocrate Calcedonio, suo compagnone, [e per lo studio
loro], e per lo 'ngegno [singulare] e quasi divino che la natura in Aristotile messo avea,
questo fine conoscendo per lo modo socratico quasi e academico, limaro e a perfezione la
filosofia morale redussero, e massimamente Aristotile. E però che Aristotile cominciò a
disputare andando in qua e in lae, chiamati furono - lui, dico, e li suoi compagni -
Peripatetici, che tanto vale quanto "deambulatori". E però che la perfezione di
questa moralitade per Aristotile terminata fue, lo nome de li Academici si spense, e tutti
quelli che a questa setta si presero Peripatetici sono chiamati; e tiene questa gente oggi
lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi cattolica
oppinione. Per che vedere si può, Aristotile essere additatore e conduttore de la gente a
questo segno. E questo mostrare si volea.
Per che, tutto ricogliendo, è manifesto
lo principale intento, cioè che l'autoritade del filosofo sommo di cui s'intende sia
piena di tutto vigore. E non repugna a la imperiale autoritade; ma quella sanza questa è
pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sé, ma per la disordinanza de
la gente; sì che l'una con l'altra congiunta utilissime e pienissime sono d'ogni vigore.
E però si scrive in quello di Sapienza: "Amate lo lume de la sapienza, voi tutti che
siete dinanzi a' populi". Ciò è a dire: Congiungasi la filosofica autoritade con la
imperiale, a bene e perfettamente reggere. Oh miseri che al presente reggete! e oh
miserissimi che retti siete! ché nulla filosofica autoritade si congiunge con li vostri
reggimenti né per proprio studio né per consiglio, sì che a tutti si può dire quella
parola de lo Ecclesiaste: "Guai a te, terra, lo cui re è fanciullo, e li cui
principi la domane mangiano!"; e a nulla terra si può dire quella che seguita:
"Beata la terra lo cui re è nobile e li cui principi [cibo] usano i[n] suo tempo, a
bisogno e non a lussuria!". Ponetevi mente, nemici di Dio, a' fianchi, voi che le
verghe de' reggimenti d'Italia prese avete - e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi
altri principi e tiranni -; e guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate
quante volte lo die questo fine de l'umana vita per li vostri consiglieri v'è additato!
Meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra
le cose vilissime.
Capitolo VII
Poi che veduto
è quanto è da reverire l'autoritade imperiale e la filosofica, che paiono aiutare le
proposte oppinioni, è da ritornare al diritto calle de lo inteso processo. Dico dunque
che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che sanza altro respetto, sanza
inquisizione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote
d'alcuno valente uomo, tutto che esso sia da niente. E questo è quello che dice: Ed
è tanto durata La così falsa oppinion tra nui, Che l'uom chiama colui Omo gentil che
può dicere: "Io fui nepote, o figlio, di cotal valente", Benché sia da niente.
Per che è da notare che pericolosissima negligenza è lasciare la mala oppinione prendere
piede; che così come l'erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta, e cuopre la
spiga del frumento sì che, disparte agguardando, lo frumento non pare, e perdesi lo
frutto finalmente; così la mala oppinione ne la mente, non gastigata e corretta, sì
cresce e multiplica sì che le spighe de la ragione, cioè la vera oppinione si nasconde e
quasi sepulta si perde. Oh com'è grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai
così trifoglioso campo sarchiare come quello de la comune sentenza, sì lungamente da
questa cultura abbandonato! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo in quelle
parti dove le spighe de la ragione non sono del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare
intendo ne' quali alcuno lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora, ché de li
altri tanto è da curare quanto di bruti animali; però che non minore maraviglia mi
sembra reducere a ragione [colui in cui è la luce di ragione] del tutto spenta, che
reducere in vita colui che quattro dì è stato, nel sepulcro.
Poi che la mala condizione di questa
populare oppinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile, quella percuot[o]
fuori di tutto l'ordine de la riprovagione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi 'l ver
guata, a dare a intendere la sua intollerabile malizia, dicendo costoro mentire
massimamente; però che non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di
buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino mostrato [e
poscia errato]. Dove, a ciò mostrare, far mi conviene una questione, e rispondere a
quella, in questo modo. Una pianura è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati,
con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti, fuori de li suoi stretti sentieri.
Nevato è sì, che tutto cuopre la neve e rende una figura in ogni parte, sì che d'alcuno
sentiero vestigio non si vede. Viene alcuno da l'una parte de la campagna e vuole andare a
una magione che è da l'altra parte; e per sua industria, cioè per accorgimento e per
bontade d'ingegno, solo da sé guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende,
lasciando le vestigie de li suoi passi diretro da sé. Viene un altro appresso costui, e
vuole a questa magione andare, e non li è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e,
per suo difetto, lo cammino che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo scorto erra, e
tortisce per li pruni e per le ruine, e a la parte dove dee non va. Quale di costoro si
dee dicere valente? Rispondo: quegli che andò dinanzi. Questo altro come si chiamerà?
Rispondo: vilissimo. Perché non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: perché non
valente, cioè vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse
ben camminato; ma però che questi l'ebbe, lo suo errore e lo suo difetto non può salire,
e però è da dire non vile, ma vilissimo. E così quelli che dal padre o d'alcuno suo
maggiore [buono è disceso ed è malvagio], non solamente è vile, ma vilissimo, e degno
d'ogni dispetto e vituperio più che altro villano. E perché l'uomo da questa infima
viltade si guardi, comanda Salomone a colui che 'l valente antecessore hae avuto, nel
vigesimo secondo capitolo de li Proverbi: "Non trapasserai li termini antichi che
puosero li padri tuoi"; e dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto libro: "La
via de' giusti", cioè de' valenti, "quasi luce splendiente procede, e quella de
li malvagi è oscura. Elli non sanno dove rovinano". Ultimamente, quando si dice: E
tocca a tal, ch'è morto e va per terra, a maggiore detrimento dico questo cotale
vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio
uomo dire si puote, e massimamente quelli che da la via del buono suo antecessore si
parte. E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo de l'Anima,
"vivere è l'essere de li viventi"; e per ciò che vivere è per molti modi (sì
come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e sentire e muovere, ne li uomini
vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare
da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è sentire - animali, dico,
bruti -, vivere ne l'uomo è ragione usare. Dunque, se 'l vivere è l'essere [dei viventi
e vivere ne l'uomo è ragione usare, ragione usare è l'essere] de l'uomo, e così da
quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte da l'uso
del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? e non si parte da l'uso de la
ragione chi non ragiona il cammino che fare dee? Certo si parte; e ciò si manifesta
massimamente c[on] colui che ha le vestigie innanzi, e non le mira. E però dice Salomone
nel quinto capitolo de li Proverbi: "Quelli muore che non ebbe disciplina, e ne la
moltitudine de la sua stoltezza sarà ingannato". Ciò è a dire: Colui è morto che
non si fé discepolo, che non segue lo maestro; e questo vilissimo è quello. Potrebbe
alcuno dicere: Come è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia. Ché, sì
come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, le potenze de l'anima stanno sopra sé come
la figura de lo quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che
ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e
la intellettiva sta sopra la sensitiva. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo
rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l'ultima potenza de l'anima, cioè
la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale
bruto. E questa è la sentenza del secondo verso de la canzone impresa, nel quale si
pongono l'altrui oppinioni.
Capitolo VIII
Lo più bello ramo che
de la radice razionale consurga si è la discrezione. Ché, sì come dice Tommaso sopra lo
prologo de l'Etica, "conoscere l'ordine d'una cosa ad altra è proprio atto di
ragione", e è questa discrezione. Uno de' più belli e dolci frutti di questo ramo
è la reverenza che dee lo minore a lo maggiore. Onde Tullio, nel primo de li Offici,
parlando de la bellezza che in su l'onestade risplende, dice la reverenza essere di
quella; e così come questa è bellezza d'onestade, così lo suo contrario è turpezza e
menomanza de l'onesto, lo quale contrario inreverenza, o vero tracotanza dicere in nostro
volgare si può. E però esso Tullio nel medesimo luogo dice: "Mettere a negghienza
di sapere quello che li altri sentono di lui, non solamente è di persona arrogante, ma di
dissoluta"; che non vuole altro dire, se non che arroganza e dissoluzione è se
medesimo non conoscere, ch'è principio ed è la misura d'ogni reverenza. Per che io
volendo, con tutta reverenza e a lo Principe e al Filosofo portando, la malizia d'alquanti
de la mente levare, per fondarvi poi suso la luce de la veritade, prima che a riprovare le
proposte oppinioni proceda, mostrerò come, quelle riprovando, né contra l'imperiale
maiestade né contra lo Filosofo si ragiona inreverentemente. Che se in alcuna parte di
tutto questo libro inreverente mi mostrasse, non sarebbe tanto laido quanto in questo
trattato; nel quale, di nobilitade trattando, me nobile e non villano deggio mostrare. E
prima mostrerò me non presummere [contra l'autorità del Filosofo; poi mostrerò me non
presummere] contra la maiestade imperiale.
Dico adunque che quando lo Filosofo dice:
"Quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso", non intende
dicere del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello dentro, cioè razionale; con ciò
sia cosa che 'l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo,
massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato. Onde
sapemo che a la più gente lo sole pare di larghezza, nel diametro, d'un piede, e sì è
ciò falsissimo. Ché, secondo lo cercamento e la invenzione che ha fatto l'umana ragione
con l'altre sue arti, lo diametro del corpo del sole è cinque volte quanto quello de la
terra, e anche una mezza volta; [onde], con ciò sia cosa che la terra per lo diametro suo
sia semilia cinquecento miglia, lo diametro del sole, che a la sensuale apparenza appare
di quantità d'un piede, è trentacinque milia settecento cinquanta miglia. Per che
manifesto è Aristotile non avere inteso de la sensuale apparenza; e però, se io intendo
solo a la sensuale apparenza riprovare, non faccio contra la intenzione del Filosofo, e
però né la reverenza che a lui si dee non offendo. E che io sensuale apparenza intenda
riprovare è manifesto. Ché costoro, che così giudicano, non giudicano se non per quello
che sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre; che perché veggiono fare le
parentele e li alti matrimonii, li edifici mirabili, le possessioni larghe, le signorie
grandi, credono quelle essere cagioni di nobilitade, anzi essa nobilitade credono quelle
essere. Che s'elli giudicassero con l'apparenza razionale, dicerebbero lo contrario, cioè
la nobilitade essere cagione di questo, sì come di sotto in questo trattato si vedrà.
E come io, secondo che vedere si può,
contra la reverenza del Filosofo non parlo ciò riprovando, così non parlo contra la
reverenza de lo Imperio: e la ragione mostrare intendo. Ma però che, dinanzi da
l'avversario s[e] ragiona, lo rettorico dee molta cautela usare nel suo sermone, acciò
che l'avversario quindi non prenda materia di turbare la veritade, io, che al volto di
tanti avversarii parlo in questo trattato, non posso [brievemente] parlare; onde, se le
mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli. Dico adunque che, a mostrare me non
essere inreverente a la maiestade de lo Imperio, prima è da vedere che è
"reverenza". Dico che reverenza non è altro che confessione di debita
subiezione per manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è intra loro
"inreverente" [e "non reverente". Lo inreverente] dice privazione, lo
non reverente dice negazione. E però la inreverenza è disconfessare la debita
subiezione, per manifesto segno, dico, e la non reverenza è negare la debita subiezione.
Puote l'uomo disdicere la cosa doppiamente: per uno modo puote l'uomo disdicere offendendo
a la veritade, quando de la debita confessione si priva, e questo propriamente è
"disconfessare"; per un altro modo puote l'uomo disdicere non offendendo a la
veritade, quando quello che non è non si confessa, e questo è proprio
"negare": sì come disdicere l'uomo sé essere del tutto mortale, è negare,
propriamente parlando. Per che se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono
inreverente, ma sono non reverente: che non è contro a la reverenza, con ciò sia cosa
che quella non offenda; sì come lo non vivere non offende la vita, ma offende quella la
morte, che è di quella privazione. Onde altro è morte e altro è non vivere; che non
vivere è ne le pietre. E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel
subietto de l'abito, e le pietre non sono subietto di vita, per che non "morte",
ma "non vivere" dicere si deono; similemente io, che in questo caso a lo Imperio
reverenza avere non debbo, se la disdico, inreverente non sono, ma sono non reverente, che
non è tracotanza né cosa da biasimare. Ma tracotanza sarebbe l'essere reverente (se
reverenza si potesse dicere), però che in maggiore e in vera [in]reverenza si cadrebbe,
cioè de la natura e de la veritade, sì come di sotto si vedrà. E da questo fallo si
guardò quello maestro de li filosofi, Aristotile, nel principio de l'Etica quando dice:
"Se due sono li amici, e l'uno è la verità, a la verità è da consentire".
Veramente, perché detto ho ch'i' sono non reverente, che è la reverenza negare, cioè
negare la debita subiezione per manifesto segno, da vedere è come questo è negare e non
disconfessare, cioè da vedere come, in questo caso, io non sia debitamente a la imperiale
maiestà subietto. E perché lunga conviene essere la ragione, per proprio capitolo
immediatamente intendo ciò mostrare.
Capitolo IX
A vedere come in
questo caso, cioè in riprovando o in approvando l'oppinione de lo Imperadore, a lui non
sono tenuto a subiezione, reducere a la mente si conviene quello che de lo imperiale
officio di sopra, nel quarto capitolo di questo trattato, è ragionato, cioè che a
perfezione de l'umana vita la imperiale autoritade fu trovata, e che ella è regolatrice e
rettrice di tutte le nostre operazioni, giustamente; che, pertanto, oltre quanto le nostre
operazioni si stendono tanto la maiestade imperiale ha giurisdizione, e fuori di quelli
termini non si sciampia. Ma sì come ciascuna arte e officio umano da lo imperiale è a
certi termini limitato, così questo da Dio a certo termine è finito: e non è da
maravigliare, ché l'officio e l'arte de la natura finito in tutte sue operazioni vedemo.
Che se prendere volemo la natura universale di tutto, tanto ha giurisdizione quanto tutto
lo mondo, dico lo cielo e la terra, si stende; e questo è a certo termine, sì come per
lo terzo de la Fisica e per lo primo De Celo et Mundo è provato. Dunque la giurisdizione
de la natura universale è a certo termine finita - e per consequente la parti[culare] -;
e anche di costei è limitatore colui che da nulla è limitato, cioè la prima bontade,
che è Dio, che solo con la infinita capacitade infinito comprende.
E a vedere li termini de le nostre
operazioni, è da sapere che solo quelle sono nostre operazioni che subiacciono a la
ragione e a la volontade; che se in noi è l'operazione digestiva, questa non è umana, ma
naturale. Ed è da sapere che la nostra ragione a quattro maniere d'operazioni,
diversamente da considerare, è ordinata: ché operazioni sono che ella solamente
considera, e non fa né può fare alcuna di quelle, sì come sono le cose naturali e le
sopranaturali e le matematice; e operazioni che essa considera e fa nel proprio atto suo,
le quali si chiamano razionali, sì come sono arti di parlare; e operazioni sono che ella
considera e fa in materia di fuori di sé, sì come sono arti meccanice. E queste tutte
operazioni, avvegna che 'l considerare loro subiaccia a la nostra volontade, elle per loro
a nostra volontade non subiacciono: ché, perché noi volessimo che le cose gravi
salissero per natura suso, e perché noi volessimo che 'l silogismo con falsi principii
conchiudesse veritade dimostrando, e perché noi volessimo che la casa sedesse così forte
pendente come diritta, non sarebbe; però che di queste operazioni non fattori
propriamente, ma li trovatori semo. Altri l'ordinò e fece maggior fattore. Sono anche
operazioni che la nostra [ragione] considera ne l'atto de la volontade, sì come offendere
e giovare, sì come star fermo e fuggire a la battaglia, sì come stare casto e
lussuriare, e queste del tutto soggiacciono a la nostra volontade; e però semo detti da
loro buoni e rei perch'elle sono proprie nostre del tutto, perché, quanto la nostra
volontade ottenere puote, tanto le nostre operazioni si stendono. E con ciò sia cosa che
in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da
fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non sapere quale essa si
sia o per non volere quella seguitare) trovata fu la Ragione scritta, e per mostrarla e
per comandarla. Onde dice Augustino: "Se questa - cioè equitade - li uomini la
conoscessero, e conosciuta servassero, la Ragione scritta non sarebbe mestiere"; e
però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: "La ragione scritta è arte di
bene e d'equitade". A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo officiale
posto di cui si parla, cioè lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni
proprie, che dette sono, si stendono, siamo subietti; e più oltre no. Per questa ragione,
in ciascuna arte e in ciascuno mestiere li artefici e li discenti sono, ed esser deono,
subietti al prencipe e al maestro di quelle, in quelli mestieri ed in quella arte; e fuori
di quello la subiezione pere, però che pere lo principato. Sì che quasi dire si può de
lo Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo
cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo
campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la
sua governazione è rimasa!
E da considerare è che quanto la cosa è
più propia de l'arte o del maestro, tanto è maggiore in quella la subiezione; ché,
multiplicata la cagione, multiplica l'effetto. Onde è da sapere che cose sono che sono
sì pure arti, che la natura è instrumento de l'arte: sì come vogare con remo, dove
l'arte fa suo instrumento de la impulsione, che è naturale moto; sì come nel trebbiare
lo frumento, che l'arte fa suo instrumento del caldo, che è natural qualitade; e in
queste massimamente a lo prencipe e maestro de l'arte esser si dee subietto. E cose sono
dove l'arte è instrumento de la natura, e queste sono meno arti; e in esse sono meno
subietti li artefici a loro prencipe; sì com'è dare lo seme a la terra (qui si vuole
attendere la volontà de la natura), sì come è uscire di porto (qui si vuole attendere
la naturale disposizione del tempo). E però vedemo in queste cose spesse volte
contenzione tra li artefici, e domandare consiglio lo maggiore al minore. Altre cose sono
che non sono de l'arte, e paiono avere con quella alcuna parentela, e quinci sono li
uomini molte volte ingannati; e in queste li discenti a lo artefice, o vero maestro,
subietti non sono, né credere a lui sono tenuti quanto è per l'arte: sì come pescare
pare aver parentela col navicare, e conoscere la vertù de l'erbe pare aver parentela con
l'agricoltura; che non hanno insieme alcuna regola, con ciò sia cosa che 'l pescare sia
sotto l'arte de la venagione e sotto suo comandare, e lo conoscere la vertù de l'erbe sia
sotto la medicina o vero sotto più nobile dottrina.
Queste cose simigliantemente, che de
l'altre arti sono ragionate, vedere si possono ne l'arte imperiale; ché regole sono in
quella che sono pure arti, sì come sono le leggi de' matrimonii, de li servi, de le
milizie, de li successori in dignitade, e di queste in tutto siamo a lo Imperadore
subietti, sanza dubbio e sospetto alcuno. Altre leggi sono che sono quasi seguitatrici di
natura, sì come constituire l'uomo d'etade sofficiente a ministrare, e di queste non semo
in tutto subietti. Altre molte sono che paiono avere alcuna parentela con l'arte imperiale
- e qui fu ingannato ed è chi crede che la sentenza imperiale sia in questa parte
autentica -: sì come [diffinire] giovinezza e gentilezza, sovra le quali nullo imperiale
giudicio è da consentire, in quanto elli è imperadore: però, quello che è di [Cesare
sia renduto a Cesare, e quello che è di] Dio sia renduto a Dio. Onde non è da credere
né da consentire a Nerone imperadore, che disse che giovinezza era bellezza e fortezza
del corpo, ma a colui che dicesse che giovinezza è colmo de la naturale vita, che sarebbe
filosofo. E però è manifesto che diffinire di gentilezza non è de l'arte imperiale; e
se non è de l'arte, trattando di quella, a lui non siamo subietti; e se non [siamo]
subietti, reverire lui in ciò non siamo tenuti: e questo è quello [che] [cerc]ando
s'andava. Per che omai con tutta licenza e con tutta franchezza d'animo è da ferire nel
petto a le usate oppinioni, quelle per terra versando, acciò che la verace, per questa
mia vittoria, tegna lo campo de la mente di coloro per c[ui] fa questa luce avere vigore.
Capitolo X
Poi che poste
sono l'altrui oppinioni di nobilitade, e mostrato è quelle riprovare a me esser licito,
verrò a quella parte ragionare che ciò ripruova; che comincia, sì come detto è di
sopra: Chi diffinisce: "Omo è legno animato". E però è da sapere che
l'oppinione de lo Imperadore - avvegna che con difetto quella ponga - ne l'una
particula, cioè là dove disse belli costumi, toccò de li costumi di nobilitade, e però
in quella parte riprovare non s'intende. L'altra particula, che di natura di nobilitade è
del tutto diversa, s'intende riprovare; la quale due cose pare dicere quando dice antica
ricchezza, cioè tempo e divizie, le quali a nobilitade sono del tutto diverse, come
detto è e come di sotto si mostrerà. E però riprovando si fanno due parti: prima si
ripruovano le divizie, e poi si ripruova lo tempo essere cagione di nobilitade. La seconda
parte comincia: Né voglion che vil uom gentil divegna. E da sapere è che,
riprovate le divizie, è riprovata non solamente l'oppinione de lo Imperadore in quella
parte che le divizie tocca, ma eziandio quella del vulgo interamente che solo ne le
divizie si fondava. La prima parte in due si divide: che ne la prima generalmente si dice
lo 'mperadore essere stato erroneo ne la diffinizione di nobilitade; secondamente si
mostra ragione perché. E comincia questa seconda parte: Ché le divizie, sì come si
crede.
Dico adunque, Chi diffinisce:
"Omo è legno animato", che prima dice non vero, cioè falso, in
quanto dice "legno"; e poi parla non intero, cioè con difetto, in
quanto dice "animato", non dicendo "razionale", che è differenza per
la quale uomo da la bestia si parte. Poi dico che per questo modo fu erroneo in diffinire
quelli che tenne impero: non dicendo "imperadore", ma "quelli che
tenne imperio", a mostrare (come detto è di sopra) questa cosa determinare essere
fuori d'imperiale officio. Poi dico similemente lui errare, che puose de la nobilitade
falso subietto, cioè "antica ricchezza", e poi procede[tt]e a "defettiva
forma", o vero differenza, cioè "belli costumi", che non comprendono ogni
formalitade di nobilitade, ma molto picciola parte, sì come di sotto si mostrerà. E non
è da lasciare, tutto che 'l testo si taccia, che messere lo Imperadore in questa parte
non errò pur ne le parti de la diffinizione, ma eziandio nel modo di diffinire, avvegna
che, secondo la fama che di lui grida, elli fosse loico e clerico grande: ché la
diffinizione de la nobilitade più degnamente si farebbe da li effetti che da' principii,
con ciò sia cosa che essa paia avere ragione di principio, che non si può notificare per
cose prime, ma per posteriori. Poi quando dico: Ché le divizie, sì come si crede,
mostro come elle non possono causare nobilitade, perché sono vili; e mostro quelle non
poterla torre, perché son disgiunte molto da nobilitade. E pruovo quelle essere vili per
uno loro massimo e manifestissimo difetto; e questo fo quando dico: Che siano vili
appare. Ultimamente conchiudo, per virtù di quello che detto è di sopra, l'animo
diritto non mutarsi per loro transmutazione; che è pruova di quello che detto è di
sopra, quelle essere da nobilitade disgiunte, per non seguire l'effetto de la
congiunzione. Ove è da sapere che, sì come vuole lo Filosofo, tutte le cose che fanno
alcuna cosa, conviene essere prima quelle perfettamente in quello essere; onde dice nel
settimo de la Metafisica: "Quando una cosa si genera da un'altra, generasi di quella,
essendo in quello essere". Ancora è da sapere che ogni cosa che si corrompe, sì si
corrompe, precedente alcuna alterazione, e ogni cosa che è alterata conviene essere
congiunta con l'altera[nte] [cag]ione, sì come vuole lo Filosofo nel settimo de la Fisica
e nel primo De Generatione. Queste cose proposte, così procedo, e dico che le divizie,
come altri credea, non possono dare nobilitade; e a mostrare maggiore diversitade avere
con quella, dico che non la possono torre a chi l'ha. Dare non la possono, con ciò sia
cosa che naturalmente siano vili, e per la viltade siano contrarie a la nobilitade. E qui
s'intende viltade per degenerazione, la quale a la nobilitade s'oppone; con ciò sia cosa
che l'uno contrario non sia fattore de l'altro né possa essere, per la prenarrata cagione
la quale brevemente s'aggiugne al testo, dicendo: Poi chi pinge figura. Onde
nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima
tale, quale la figura essere dee. Ancora torre non la possono, però che da lungi sono di
nobilitade, e per la ragione prenarrata che [ciò che] altera o corrompe alcuna cosa
convegna essere congiunto con quella. E però soggiugne: Né la diritta torre Fa
piegar rivo che da lungi corre; che non vuole altro dire, se non rispondere a ciò
che detto è dinanzi, che le divizie non possono torre nobilitade, dicendo quasi quella
nobilitade essere torre diritta, e le divizie fiume da lungi corrente.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 15 giugno 1999